Welfare aziendale e premi di risultato: due romanzi… quasi distinti
1- Che cos’è il welfare aziendale?
Definire correttamente il welfare aziendale richiede l’utilizzo di un bel po’ di metodo induttivo. Si tratta di un’operazione in cui, una volta acquisito un grande insieme di esempi singolari, si cerca di estrarre un elemento comune a tutti loro; da un numero di situazioni particolari una legge generale. In questo caso si ha a che fare con il mondo dell’iniziativa privata, e ciò significa che tutta la libertà e l’immaginazione umana, con la sua incredibile capacità di adattamento attorno e attraverso gli ostacoli e le asperità del mondo reale, crea una foresta di diverse soluzioni che sebbene abbiano una radice comune, questa passa in secondo piano e resti visibile solo tenuamente, quasi oscurata dalle diversità di fini e obiettivi che, nel concreto, lo spirito umano si è trovato a dover affrontare e risolvere.
In tutto questo il termine “welfare”, traducibile imperfettamente con l’italiano “benessere”, non ci rende alcun favore. Il nostro attuale modello di stato infatti viene definito proprio “welfare state”, e per estensione la nostra è ”l’età del benessere”: giocoforza il termine viene utilizzato in modo esasperato e anzi addirittura se ne abusa. Per di più il fatto che, almeno per alcuni commentatori più pessimisti, ci troviamo piuttosto al suo tramonto, o quantomeno crisi (del “welfare state”), andrebbe a rafforzare, invece che moderare, la molteplicità del panorama. Del resto è proprio nella fase immediatamente precedente la chiusura dei romanzi che la complessità è massima: tutti i nodi a quel punto sono stati esposti e ora attendono soluzione.
Occorre iniziare da basi certe. Sebbene i giuristi maggiormente navigati possano avere i loro dubbi riguardo l’attribuzione di quest’ultimo aggettivo al diritto italiano, è nondimeno opportuno partire da questo angolo, se non altro perché comunque il diritto agisce come banchina artificiale al corso fluviale dell’ingegno privato.
Occorre iniziare da basi certe. Sebbene i giuristi maggiormente navigati possano avere i loro dubbi riguardo l’attribuzione di quest’ultimo aggettivo al diritto italiano, è nondimeno opportuno partire da questo angolo, se non altro perché comunque il diritto agisce come banchina artificiale al corso fluviale dell’ingegno privato.
Innanzitutto è fondamentale distinguere il welfare aziendale, o privato, dal welfare pubblico: pensioni, sanità e scuola pubbliche le tre figure principe di quest’ultimo, e che più di tutte hanno influenzato la nostra percezione del mondo, da cui si fa derivare a partire dalla generazione dei nostri genitori il concetto di “età del benessere”. Ad esse e sempre nel welfare pubblico si uniscono i sussidi di disoccupazione e numerose altre assistenze statali. Si tratta quindi, in generale, di corresponsioni in denaro, servizi o benefici fiscali negli ambiti della vita più disparati. La differenza con il welfare privato è però nella fonte e non nel contenuto del welfare: non è alieno oggigiorno un welfare privato che offra anche uno o più dei tre elementi cardine di quello che garantisce in ogni caso lo stato, in forma diversa o superiore qualità.
Guardando con occhio scientifico all’evoluzione storica, perché al welfare pubblico si sia aggiunto oggi un welfare privato possiamo rintracciare due principali punti di discontinuità: in primis l’introduzione dei “valori in genere” ed “erogazioni liberali” all’interno del concetto di reddito da lavoro (D.P.R. 917 del 22 dicembre 1986, con la nascita del Testo Unico delle Imposte sul Reddito); in secundis con le leggi di stabilità del 2016 e anni seguenti, con le quali si introduce, e poi allarga sempre più l’ambito, della completa deducibilità delle somme destinate a piani di welfare per i dipendenti. Salta immediatamente all’occhio la differenza di intenti del legislatore. Se nel 1986 si fa menzione dei “valori in genere” ed “erogazioni liberali” per ricondurli al reddito da lavoro e quindi riportarli all’interno della base d’imposta, nella seconda metà degli anni Dieci avviene un cambiamento di rotta di 180 gradi, con la concessione della detassazione per qualsiasi piano welfare rientri all’interno di un accordo con i sindacati. Cade in altre parole il requisito prima richiesto della “volontarietà” (o meglio dell’ “unilateralità liberale”) del welfare concesso dal datore di lavoro, restante solo per le erogazioni cosiddette “fringe benefit” limitate a 258 euro annui. Al contrario per moltissime categorie (trasporto pubblico locale, assistenza ai familiari e altre) non si prevedono limiti di spesa deducibile. L’intento del legislatore diviene quello di non pesare oltremodo con le imposte sul benessere del lavoratore.
2 – Il premio di risultato e il punto di vista aziendale sul welfare
Sempre nella legge di stabilità del 2016 viene anche reintrodotta la tassazione agevolata del premio di produttività, inizialmente prevista già dal 2007 ma temporaneamente eliminata nel 2015.
Il premio di produttività o risultato rappresenta la componente amministrativa e contabile del Management by Objectives, strumento consolidato di gestione dell’impresa che fa forza sulla condivisione dei fini aziendali tra general manager, responsabili e operatori. Esso rappresenta il mezzo grazie al quale è possibile organizzare l’azione delle risorse umane nella direzione desiderata e ottenere una collaborazione più efficace.
In astratto, non c’è nulla che colleghi il premio di risultato (o in un senso più ampio, un sistema di MBO) ad un sistema sistema di welfare, se non il favor legislativo.
Infatti se il premio di risultato è assoggettato ad una tassazione agevolata del solo 10%, il welfare è completamente libero da imposte.
L’azienda che vuole strutturarsi maggiormente, tuttavia, ha numerosi incentivi per dotarsi di entrambi i sistemi. Se per il dipendente il welfare aziendale incrementa la qualità del work-life balance e consente di ottenere maggior valore a parità di retribuzione lorda, dal punto di vista dell’azienda il welfare ottimizza i costi, fidelizza le risorse e incentiva un clima lavorativo più felice e di conseguenza produttivo. La stessa produttività che è alla base della decisione di dotarsi di un MBO con premio di risultato.
Diventa a questo punto subito comprensibile il passaggio seguente: sebbene si tratti di due ambiti molto diversi, i due strumenti trovano unione in quello che viene definito “premio di risultato welfarizzato”: ossia la possibilità, prevista dalla normativa, di convertire il premio di risultato in welfare, per scelta unilaterale del lavoratore oppure come conseguenza di un accordo sindacale. La fusione tra i due strumenti consente il completo abbattimento del cuneo fiscale per i premi di risultato, risultando di maggior favore anche per il lavoratore.
3 – Un sistema di PdR welfarizzato nella pratica
La costruzione pratica di un premio di risultato “welfarizzato” segue un iter che si rende necessario per la sua duplice natura. Alla base c’è un accordo sindacale, nazionale, territoriale, interconfederale o di secondo livello. In questo accordo elemento essenziale è la scelta di un indicatore economico che garantisca un incremento tra produttività, redditività, qualità, efficienza o innovazione, che sia misurabile e verificabile. L’accordo infatti va depositato presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. L’accordo può contenere all’interno o rinviare ad un sistema di MBO, costruito sulla sua base giuridica bilaterale.
L’MBO che si va così a creare rifletterà le necessità aziendali nella scelta degli obiettivi: dal miglioramento in determinati ambiti alla necessità di cambiare determinati approcci, potrà contenere obiettivi quantitativi o di comportamenti aziendali, così come prevedere la convertibilità del premio in welfare ab origine (e quindi obbligatoria per il lavoratore, che si troverà a scegliere solo tra diverse tipologie di welfare) oppure la scelta del lavoratore del premio in “cash”.
Da questo punto in poi il sistema di MBO è simile in tutto e per tutto al suo corrispettivo classico. Diventa necessaria la divisione in famiglie o aree professionali della popolazione aziendale al fine dell’assegnazione di obiettivi coerenti con l’operato e ruolo svolto in azienda.
Infine è sempre possibile l’utilizzo di un provider esterno per l’erogazione concreta del welfare o, in questo caso, del premio in welfare, cioè di un’azienda specializzata nell’erogazione di questo tipo di servizio.